Antibiotici e
appropriatezza prescrittiva: uno studio indaga tre possibili interventi per
orientare i medici
Migliorare
l’appropriatezza prescrittiva, soprattutto quando si parla di antibiotici e del
loro frequente abuso, può significare anche fare leva su aspetti
comportamentali che possano influenzare le scelte terapeutiche dei clinici, in
particolare presso gli ambulatori e gli studi medici. E’ quanto rivela un
recente studio pubblicato
su JAMA che ha verificato alcune strategie per disincentivare i medici di
medicina generale dal prescrivere antibiotici per la terapia delle infezioni
acute delle vie respiratorie (IAR), rivelando come spesso le decisioni cliniche
siano condizionate da pressioni sociali e da quelle dei pazienti (o dei loro
genitori).
Le IAR, come
confermano anche i dati del Rapporto AIFA dell’Osservatorio sull’impiego dei
medicinali in Italia, sono le condizioni cliniche per le quali si osserva un
impiego di antibiotici più frequentemente inappropriato nella popolazione
adulta: costituiscono infatti il 75% circa degli interventi medici nella
stagione invernale e un quarto del carico di lavoro complessivo presso gli
ambulatori di medicina generale.
Gli antibiotici
solitamente non sono indicati per il loro trattamento, eppure vengono
ampiamente prescritti: sempre nel territorio nazionale, il 41% dei soggetti con
diagnosi di affezioni virali delle prime vie respiratorie (influenza,
raffreddore, laringotracheite acuta) riceve una prescrizione di antibiotico,
che tuttavia è del tutto inutile in presenza di virus. A questa
sovra-prescrizione inappropriata si somma inoltre un impiego improprio di
alcuni tipi di antibiotici per patologie per le quali non sono prettamente
indicati. E’ il caso di macrolidi, fluorochinoloni e cefalosporine erroneamente
prescritti in un caso su tre per la terapia della faringite o della tonsillite
acuta; o delle cefalosporine iniettive e dei fluorochinoloni utilizzati per il
trattamento della bronchite acuta in assenza di diagnosi di asma o
BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO). In Italia tutti gli usi impropri
degli antibiotici per le infezioni delle alte vie respiratorie si registrano in
maggioranza al Sud, nella popolazione femminile e negli individui di età
avanzata.
Non è però diversa
la situazione negli Stati Uniti, dove ogni anno il numero di prescrizioni di
antibiotici effettuate presso studi medici, dentistici, pediatrici e ambulatori
supera i 250 milioni, la gran parte dei quali – appunto - per il trattamento
delle IAR. Proprio per indagare questo fenomeno e possibili misure per ridurre
un’eccessiva prescrizione, il trial randomizzato condotto dal team di
ricercatori di Los Angeles e Boston ha coinvolto 248 medici in 47 ambulatori
per 18 mesi, allo scopo di valutare tre differenti approcci che avrebbero avuto
potenziali ricadute sulle scelte terapeutiche dei soggetti del campione. Tutti
gli interventi sfruttavano il canale del sistema di gestione on line della ricetta
medica elettronica dei pazienti, sulla cui piattaforma interagire direttamente
con il medico tramite messaggi su finestre di dialogo a comparsa o e-mail in
arrivo al momento della prescrizione. Più in particolare, con il primo
intervento venivano suggerite delle alternative terapeutiche al posto degli
antibiotici, specificando che per la diagnosi indicata di IAR questi non erano
appropriati. Il secondo richiedeva ai clinici di fornire una motivazione
scritta, con testo libero, che giustificasse la prescrizione di una cura
antibiotica per infezione acuta delle vie respiratorie, con traccia nel sistema
anche di una eventuale mancata giustificazione. Il terzo sistema prevedeva una
sorta di “classifica” basata su quante prescrizioni di antibiotici ciascun medico
aveva effettuato e su un confronto continuo rispetto ai “Top Performer”, coloro
cioè che totalizzavano il minor numero di prescrizioni inappropriate.
Concluso il
periodo di studio i risultati si sono rivelati incoraggianti per tutte e tre le
misure di dissuasione dalla prescrizione non necessaria di antibiotici per il
trattamento delle infezioni acute delle vie respiratorie, con un decremento
percentuale medio di ricette di circa il 5% per ciascun intervento. I due
sistemi di persuasione che prevedevano un coinvolgimento del medico di tipo più
“sociale” - l’invio di una giustificazione scritta e un confronto fra colleghi
nella prescrizione di antibiotici - hanno effettivamente influenzato
maggiormente i partecipanti al trial verso un comportamento più cauto nella
prescrizione. Anche il tasso di visite di ritorno di pazienti cui non era stato
prescritto l’antibiotico per il persistere di infezioni batteriche si sono
rivelati di modesta entità.
Il valore aggiunto
di questo studio risiede nella semplicità degli interventi proposti, mirati al
momento preciso della prescrizione ambulatoriale e tarati per fare leva
sull’effetto comportamentale e sulle possibili ricadute “di immagine” del
medico, nel caso di una sua prescrizione di antibiotici non appropriata.
L’utilizzo del
canale informatico della ricetta elettronica consente poi l’applicazione di
queste misure in maniera molto agevole e piuttosto economica, con importanti
vantaggi in termini di salute collettiva.
Nell’editoriale a
commento dello studio viene auspicato che questa modalità possa essere
sfruttata anche per tenere maggiormente traccia delle prescrizioni di
antibiotici effettuate in ambulatorio e per veicolare programmi mirati di
gestione della loro dispensazione al pari di quelli applicati in ambito
ospedaliero.
Leggi lo studio pubblicato su JAMA e l’editoriale a commento
Fonte:
AIFA