Tra
realtà e fantascienza: i progressi nel campo degli impianti neurali
Chip di memoria che permettono di ricordare perfettamente tutto ciò che
si legge, interfaccia Internet impiantate nel cervello che traducono i pensieri
in ricerche online, chip retinici che permettono di vedere perfettamente al
buio, impianti cocleari che consentono di ascoltare qualsiasi conversazione in
un ambiente rumoroso e così via. Non si tratta di fantasie uscite dalla
penna di Philip K. Dick, scrittore visionario, autore di numerosi romanzi di
fantascienza da cui il cinema ha attinto a piene mani, ma di una realtà che
potrebbe essere non molto lontana: il connubio tra uomo e macchina si sta
realizzando.
A differenza dei pacemaker,
delle corone dentali o delle pompe insuliniche impiantabili, le protesi
neurali, dispositivi in grado di ripristinare o completare le capacità della
mente tramite sistemi elettronici inseriti direttamente nel sistema nervoso,
cambiano il modo in cui si percepisce il mondo e ci si muove attraverso di
esso: nel bene o nel male, questi dispositivi diventano parte di noi
stessi.
In realtà, le protesi neurali non sono propriamente una novità. Gli
impianti cocleari o “orecchi bionici” trasmettono informazioni sensoriali al
sistema nervoso e sono di fatto neuroprotesi; in commercio da oltre tre decenni
sono stati utilizzati da circa 300.000 pazienti non udenti di tutto il mondo.
Concettualmente simili, gli impianti di protesi retinica realizzati da un
gruppo di ricercatori di una società californiana permettono di riacquistare
una certa funzione visiva. I risultati di un importante studio che dimostra la loro efficacia sono
stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Neuroprosthetics nel 2012 e, dopo
l’autorizzazione del dispositivo negli USA e in Europa, già diverse decine di
pazienti hanno riacquistato una certa funzione visiva grazie a essi. Il
dispositivo è composto da minuscoli elettrodi collegati alla retina in grado di
captare informazioni visive attraverso una micro-telecamera montata su un paio
di occhiali speciali; le immagini riprese sono inviate a un ricevitore che,
grazie a un processore, decodifica il segnale video. Queste informazioni sono
inviate a un'antenna in grado di comunicare con gli elettrodi, che trasmettono
segnali in grado di stimolare i nervi ottici, responsabili del "passaggio"
delle immagini dagli occhi al cervello.
Un altro tipo di impianto ormai comune, utilizzato da migliaia di
pazienti affetti da morbo di Parkinson in tutto il mondo, è un neurostimolatore
che invia impulsi elettrici in profondità nel cervello, attivando alcuni dei
meccanismi coinvolti nel controllo motorio. Gli elettrodi o elettrocateteri
vengono posizionati all’interno del tessuto cerebrale e collegati da un filo
che corre verso una batteria sotto la pelle; recentemente è stata sviluppata
una nuova tecnica chirurgica per l’impianto degli elettrodi che utilizza i
progressi nella diagnostica per immagini, illustrata in un articolo sul Journal of Neurosurgery.
L'effetto dell’impianto è quello di ridurre o eliminare i tremori e i movimenti
rigidi dovuti al morbo di Parkinson (anche se, purtroppo, il dispositivo
non arresta la progressione della malattia). Prove sperimentali sono in corso
per testare l'efficacia di tale "stimolazione cerebrale profonda" per
il trattamento di altri disturbi.
La stimolazione elettrica può anche migliorare alcune forme di memoria,
come hanno mostrato il neurochirurgo Itzhak Fried e i suoi colleghi
dell'Università della California, Los Angeles in un articolo pubblicato
nel 2012 nel New England Journal of Medicine. Secondo Fried, il segreto per la
memorizzazione “eterna” è stimolare l’ippocampo, una regione cerebrale deputata
proprio alla costruzione della memoria a lungo termine. Utilizzando una
configurazione simile a un videogioco in cui i pazienti si immedesimavano con
un tassista costretto a ricordare strade intricate della città, salita e
discesa dei suoi clienti, i ricercatori hanno ottenuto un inaspettato
risultato: i pazienti riuscivano a orientarsi molto meglio, riconoscevano i
punti di riferimento e svoltavano nelle varie strade con molta agilità.
Ma non tutti gli impianti cerebrali funzionano stimolando direttamente
il cervello. Alcuni lavorano invece leggendo i segnali del cervello, per
interpretare, ad esempio, le intenzioni di un utente paralizzato. Sistemi
ottimali di protesi neurali dovrebbero cercare di fare entrambe le cose. Quanto
siamo vicini ad avere a disposizione dispositivi del genere? Per iniziare, gli
scienziati, i medici e gli ingegneri dovrebbero trovare il modo più sicuro e
affidabile per l’inserimento di sonde nel cervello delle persone. Per ora,
l'unica opzione è quella di praticare piccoli fori attraverso il cranio e inserire
lunghi e sottili elettrodi fino a raggiungere le loro destinazioni all'interno
del cervello: questo porta però a rischi di infezione.
I dispositivi esterni, come le calotte o le cuffie che permettono di
svolgere semplici operazioni sfruttando l'intensità delle onde cerebrali,
utilizzate per controllare cellulari e personaggi dei videogiochi con
applicazioni anche in campo medico, non presentano questi rischi ma sono anche
molto meno efficaci. Interfacce cervello-macchina devono essere inserite direttamente
nel cervello per poter raccogliere i segnali provenienti dalle cellule nervose,
ma esistono difficoltà legate alla relativamente breve durata di tali
dispositivi. Parte del problema è meccanico: un impianto che si muove anche di
un millimetro può diventare inefficace; un'altra parte del problema è
biologica: l'impianto deve essere non tossico e biocompatibile, in modo da non
provocare una reazione immunitaria. Deve essere anche piccolo abbastanza per
essere completamente chiuso all'interno del cranio e deve avere un basso
consumo energetico.
Molti ricercatori stanno cercando di superare questi problemi; tra
questi, gli ingegneri elettronici Michel Maharbiz e José Carmena e i loro
colleghi dell’Università della California, Berkeley, che stanno sviluppando
un’interfaccia cerebrale wireless, una sorta di “polvere neurale”: migliaia di
microsensori biologicamente neutrali, dell'ordine di un decimo di millimetro,
convertono segnali elettrici in ultrasuoni che possono essere letti al di fuori
del cervello. Ancora una volta, la realtà sposa la fiction: i due ingegneri
sono stati infatti chiamati a collaborare all’ultimo film di Wally Pfister,
“Transcendence”, un thriller fantascientifico sull’intelligenza artificiale. Ma
qui non si tratta solo di tempo libero e intrattenimento: come ha affermato lo
stesso Michel Maharbiz, “una volta che si riuscirà a realizzare impianti
stabili e duraturi per gli adulti sani, molte gravi disabilità saranno
perennemente curabili”. A milioni di pazienti gli impianti neurali cambieranno
letteralmente la vita.
Supponendo che saremo capaci di superare barriere di bioingegneria, la
prossima sfida sarà interpretare le informazioni complesse derivanti dai 100
miliardi di minuscole cellule nervose che compongono il cervello. Siamo già in
grado di farlo, ma in modo limitato.
Sulla base di decenni di ricerca in primati non umani, John P. Donoghue,
Leigh R. Hochberg e i loro colleghi della Brown University hanno creato un
sistema in grado di decodificare i segnali neurali e che consente di controllare
dispositivi robotici con il pensiero. Un piccolo chip, costellato di circa 100
cavi aghiformi, viene inserito nella parte della neocorteccia che controlla il
movimento; i segnali motori sono alimentati da un computer che li decodifica e
li distribuisce ai dispositivi robotici esterni. In uno studio pubblicato dai ricercatori della Brown
University su Nature sono stati mostrati i risultati su due pazienti
paralizzati da tempo a causa di un ictus, una donna di 58 anni e un uomo di 66;
in particolare, la donna è stata in grado di raggiungere e sorseggiare una
bibita da sola per la prima volta dopo quasi 15 anni. Si sta ora valutando la
sicurezza e la fattibilità di questa interfaccia cervello-computer, chiamata
BrainGate, destinata a mettere robotica e tecnologie innovative sotto il
diretto controllo della mente umana.
Per ora guidare un braccio robotico in questo modo è scomodo e faticoso:
siamo lontani da impianti neurali con la precisione e la reattività di una
tastiera di computer. C’è bisogno di strumenti più precisi che conducano a una
comprensione più dettagliata dei diversi tipi di cellule nervose e di come esse
si incastrano in circuiti complessi. Ad esempio, le immagini ottenute dalla
risonanza magnetica funzionale non hanno sufficiente risoluzione per darci una
vera padronanza del codice neurale; ogni voxel in una ecografia del cervello contiene
da mezzo milione a un milione di neuroni, ma occorrerebbe calibrarsi sul
singolo neurone.
Uno degli strumenti più promettenti in questo senso è l’optogenetica,
derivante dal connubio tra ottica e biologia molecolare: questa tecnica usa la
luce per attivare o inibire neuroni che, essendo geneticamente ingegnerizzati,
riescono a rispondere in modo preciso ed efficace alla luce. I progressi della
biologia molecolare, delle neuroscienze e dell’elettronica porteranno quasi
sicuramente, nel tempo, a impianti più piccoli, più intelligenti, più solidi ed
efficienti. Arriverà un momento in cui gli impianti neurali non saranno
utilizzati esclusivamente per gravi problemi come paralisi, cecità o amnesia,
ma saranno usati da persone con disabilità meno traumatiche. Saranno magari
impiegati per potenziare le prestazioni di persone sane, per migliorare la
memoria, la concentrazione mentale, persino l’umore.
Un programma in corso alla Defense Advanced Research Projects Agency
(DARPA) del Pentagono per lo sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, sta
già sostenendo il lavoro su impianti cerebrali che migliorano la memoria per
aiutare i soldati feriti in guerra, e da qui a ottenere dei “supersoldati” il
passo è breve. Si arriverà forse agli “amplificati”, già immaginati dallo
scrittore Daniel Wilson, coloro con le capacità cerebrali amplificate dalle
tecnologie, che primeggeranno nella vita quotidiana, nella scienza, nello sport
e nei conflitti armati? Queste differenze sfideranno la società in nuovi modi,
e apriranno possibilità che a malapena possiamo immaginare.
Come ha detto William Gibson, scrittore di fantascienza ed esponente del
cyberpunk, “Il futuro è già qui, solo che è mal distribuito”.
Leggi l’articolo di
Gary Marcus e Christof Koch sul Wall Street Journal
Fonte:
AIFA
22/04/2014