La
chiusura dei manicomi criminali. Un braccio di ferro culturale.
di Pier Aldo Rovatti
Negli ultimi cinquant’anni Michel
Foucault, Franco Basaglia e con loro un’intera cultura critica ci hanno fatto
capire che la “malattia mentale” (le virgolette sono d’obbligo) non è solo un
problema sociale tra gli altri ma un sintomo eloquente, quasi una misura
storica e politica della società nel suo insieme. Se osserviamo e approfondiamo
il trattamento riservato di volta in volta alla follia, possiamo comprendere
qualcosa di essenziale sui processi che innervano le varie epoche e sulla
specificità del presente in cui viviamo. Capiamo che valore hanno “gli altri”
per noi e il grado della nostra civiltà.
Questa pur rapida premessa è necessaria
per valutare episodi che magari riteniamo significativi ma tendiamo a ritenere
politicamente e culturalmente non così centrali, come potrebbe essere il caso
dell’approvazione definitiva alla Camera del decreto di chiusura degli Ospedali
psichiatrici giudiziari, insomma i “manicomi criminali”, una sopravvivenza
dichiarata a più riprese “vergognosa” e che tuttavia sembra molto difficile far
scomparire. Alla conversione in legge di questo decreto (il cui iter risale
inizialmente al 2012 e si deve all’attuale sindaco di Roma, Ignazio Marino) si
è arrivati dopo acute battaglie tuttora non sopite: non è qui la sede per
scendere nei dettagli, basterà evidenziare che ciò che è soprattutto in gioco è
la contestata cancellazione di ogni pratica di manicomializzazione.
Il manicomio non è scomparso nei fatti e specialmente
nelle nostre teste con la famosa legge 180 del 1978 (la cosiddetta “legge
Basaglia”). Già allora la psichiatria ufficiale aveva proseguito per la sua
strada e ancora oggi essa fa sentire la propria voce, che rappresenta
evidentemente una porzione non così piccola dell’opinione pubblica. Si tratta
dell’opinione, radicata in pesanti pregiudizi, secondo la quale tra normalità e
follia, tra guaribilità e inguaribilità, tra disturbo mentale e infermità
mentale, esiste un confine netto e non oltrepassabile. Un’opinione, ora
ammantata di scientificità, che può avere e ha avuto (pensiamo solo al
programma hitleriano dell’eliminazione dei “gusci vuoti”, cioè degli individui
ormai socialmente inutili) conseguenze terribili.
In Italia, proprio nei mesi scorsi, c’è
stato un forte movimento (“Stop-Opg”) che ha cercato di scalfire la crosta dei
pregiudizi e di migliorare il decreto di cui sto parlando: ricorderete il
“cavallo azzurro” partito da Trieste e che ha girato l’intero Paese armato di
questo messaggio di civiltà (con la benedizione dello stesso Presidente della
Repubblica Napolitano). Ciò nonostante, le lobby degli psichiatri si sono
levate per manifestare il loro dissenso.
Le Società scientifiche della psichiatria
ufficiale chiedono in sostanza di salvaguardare il vecchio modello medico, che
vedono “tradito” dalla messa in questione delle istituende Rems (ovvero le
Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che rischiano di
diventare dei mini-manicomi criminali) e dalla valorizzazione di quel canale
che farebbe defluire gli attuali internati negli Opg nei Dipartimenti di salute
mentale. Questa augurabile ipotesi permetterebbe programmi di cura e di
reinserimento personalizzati. C’è anche, come è ovvio, un problema di
destinazione delle risorse previste dal decreto, ma il punto è di cultura
generale: cosa ce ne facciamo del disturbo mentale, riusciremo finalmente a
infrangere la linea spessa che separa normalità da follia?
Insomma, gli psichiatri ufficiali
desiderano tenersi addosso il loro camice bianco e impugnare ben stretti nelle
loro mani i manuali diagnostici che classificano minuziosamente sindromi
vecchie e nuove. La parola manicomio li scandalizza sommamente, intanto però si
guardano dallo scendere in piazza per contestare il codice Rocco laddove esso
perpetua l’idea di “pericolosità sociale”. Un argine deve pur esserci –
sembrano dire – ma non sta a noi il compito di custodirlo: tocca ad altri
punire e contenere, noi siamo esclusivamente dei medici del cervello.
Si sa che in vari luoghi della psichiatria
istituzionale e privata si continuano a “legare” gli agitati, magari senza
curarsi troppo dei motivi dell’agitazione. Si sa che qualcuno, anche di
recente, è morto così, ma si fa finta di non saperlo. Quasi sempre la
psichiatria ufficiale tende a veleggiare altrove. Non ama immischiarsi troppo:
si dichiara fieramente contraria alla contenzione proprio mentre, magari, sta
(inconsapevolmente?) avallandola. Non sono tanto in gioco le loro “competenze”
quanto il fatto che essi si assumono di rappresentare un’opinione ancora molto
diffusa (e in linea con l’attuale trend tecnico-scientifico).
[pubblicato su
"Il Piccolo", 30 maggio 2014]
Fonte: Forum
Salute Mentale - La Terra è blu